Licenziamento

blocco

Nel rapporto di lavoro il licenziamento è l’atto con cui l’azienda manifesta la sua intenzione di risolvere il contratto a prescindere dalla volontà del dipendente.
Nello specifico, è necessario operare una distinzione tra le varie tipologie di licenziamento, in base alle motivazioni che l’hanno giustificato e alle modalità con il quale viene intimato.
Una prima differenziazione si crea tra il licenziamento comminato per “giusta causa” e quello per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.), appartenenti entrambi alla categoria dei “licenziamenti disciplinari” dal momento che vengono intimati per ragioni connesse alla condotta del lavoratore, tali da ledere il vincolo fiduciario che lega azienda e dipendente.
Inoltre, al fine di poter procedere all’utilizzo di tali tipologie di licenziamento, parte datoriale dovrà sempre seguire un’apposita procedura che prevede, nell’ordine: l’affissione del codice disciplinare in azienda; la contestazione dell’addebito al dipendente; la concessione di un termine di 5 giorni al dipendente per presentare le sue giustificazioni; l’audizione difensiva del dipendente se richiesta; l’accoglimento delle giustificazioni del dipendente o intimazione del licenziamento.
Quando invece il licenziamento è legato a eventi riguardanti l’attività produttiva o l’organizzazione del lavoro si è nell’alveo dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Ciò che distingue il licenziamento per giusta causa da quello per giustificato motivo risiede nella gravità del fatto che lo giustifica. Nei casi di G.C. la condotta posta in essere dal dipendente è talmente grave da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto durante il periodo di preavviso. Il contratto si considera immediatamente risolto. Nei licenziamenti per giustificato motivo, al contrario, tra la data di comunicazione del licenziamento e l’ultimo giorno di lavoro deve trascorrere un periodo di tempo definito dal contratto collettivo o dalla legge, cosiddetto “periodo di preavviso”, tale da consentire al dipendente di percepire comunque la retribuzione e nel frattempo cercarsi un’altra occupazione.
Dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo si differenzia anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il quale avviene quando il lavoratore realizza comportamenti disciplinarmente rilevanti, ma così gravi da comportare il licenziamento per giusta causa.

Anche il giustificato motivo soggettivo rientra nell’ambito dei licenziamenti di tipo disciplinare, poiché sanziona comportamenti ritenuti tali da incidere in modo insanabile sul regolare proseguimento del rapporto di lavoro.

Esempi specifici del G.M.S. sono anche lo scarso rendimento e/o il comportamento negligente del dipendente.

L’individuazione dei limiti entro i quali si può dire integrato il giustificato motivo soggettivo sono particolarmente rilevanti. Infatti, quando ne viene accertata l’insussistenza, il licenziamento comminato risulta illegittimo e il lavoratore ha diritto a ottenere le tutele offertegli dalla legge.
Il nostro ordinamento tutela il lavoratore anche dal cd. licenziamento discriminatorio, ossia dal licenziamento intimato da ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale, tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sule convinzioni personali del dipendente.

In caso di licenziamento discriminatorio, il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità) e a versare i contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione. L’ordinamento riconosce inoltre al lavoratore il cd. diritto di opzione, ossia la possibilità di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
Nello specifico, la legge prevede un elenco, che non potrà mai essere tassativo, di discriminazioni vietate: di genere; basate sull’età; sull’orientamento sessuale; sulla disabilità; religiose; sull’origine etnica; in base alla razza; politiche; sindacali; relative a molestie o molestie sessuali; sulle condizioni sociali; sulle condizioni e caratteristiche personali; sulla lingua; sulle caratteristiche fisiche, sui tratti somatici, sull’altezza, sul peso; sullo stato di salute; sulle convinzioni personali.
Altra e differente tipologia di licenziamento è quello c.d. “per ritorsione”, diretta o indiretta, che può essere definito come quel provvedimento espulsivo motivato da una ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a esso legata.
Quando tale motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante – e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova – il licenziamento deve considerarsi nullo. Ne consegue che il lavoratore che intenda censurare tale carattere del provvedimento datoriale non possa limitarsi a dedurre circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma debba indicare elementi idonei a individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia.
In particolare, si può desumere l’intento ritorsivo da plurime presunzioni gravi, precise e concordanti, quali l’infondatezza di una precedente contestazione disciplinare, la predisposizione di ulteriori lettere di contestazione a carico del lavoratore in vista di un eventuale suo rifiuto del cambio di mansione o di assegnazione ad altra sede di lavoro o la più mite sanzione applicata ad altro lavoratore per una mancanza analoga a quella contestata al dipendente licenziato.
D’altronde, l’allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante la cessazione del rapporto.