Studio Avvocato Lieggi

Diritto ad allattare durante un concorso

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Preambolo

Una neomamma che vuole partecipare ad un concorso e ha l’esigenza di allattare può richiedere all’Amministrazione competente di adottare idonee misure organizzative che le consentano di allattare il neonato durante la prova d’esame, nel rispetto delle pari opportunità tra candidati.

Le norme

Le norme di riferimento sono gli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione e gli artt. 12 e 14 del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487.

La questione

Nella fattispecie una donna, da poco divenuta madre, doveva sostenere le prove scritte di un concorso e richiedeva alla Commissione esaminatrice, considerando i bisogni fisiologici del bambino, di essere autorizzata ad allattare il proprio figlio durante le prove scritte del concorso, presso un’aula appositamente adibita, ed inoltre richiedeva che le fosse concesso del tempo aggiuntivo per la redazione dell’elaborato in tutte e tre le giornate degli scritti pari alla somma dei minuti persi per le poppate.

In merito al caso esaminato la sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa, la n. 163/2017 del 7 aprile, avente ad oggetto il diritto della puerpera all’espletamento di un pubblico concorso, ribadisce il concetto che “Lo stato di puerperio comporta impegno e sforzo fisico e psicologico ed è compito dell’amministrazione, in aderenza al principio di eguaglianza espresso dall’articolo 3 della Costituzione approntare, nei limiti del possibile, ogni misura solidaristica atta ad alleviare, se non proprio a rimuovere, i gravosi maggiori oneri materiali e morali incombenti sulla donna puerpera”.

Procedimento

Alla richiesta della signora di adibire spazi per l’allattamento e di recuperare il tempo perso per le poppate l’Ufficio concorso competente rispondeva che era necessario presentare un’istanza con allegato un certificato del pediatra dove venivano indicati gli orari dell’allattamento, e il nominativo della persona che avrebbe accompagnato il bambino nella sede concorsuale e che l’istanza sarebbe stata sottoposta al presidente della commissione per l’autorizzazione e per la valutazione della concessione dell’eventuale tempo aggiuntivo il giorno dell’identificazione e consegna dei codici.

La Mamma inviava l’istanza ma non riceveva nessun riscontro.

Le direttive impartite dall’Ufficio concorso, non solo non permettono di capire quando la richiesta verrà riscontrata (se il giorno prima a quello in cui verrà espletato il concorso o nel giorno stesso del concorso) ma rendono, comunque, impossibile l’espletamento dell’allattamento durante le ore dell’esame, vista la carenza di dettagli utili all’organizzazione.

Avverso tale situazione la donna si rivolgeva al suo avvocato affinchè mettesse in evidenza che la condotta dell’ufficio concorsi inerte e silente non appare affatto in linea con quanto stabilito dagli artt. 3, 31 e 37 della Costituzione oltre che agli artt. 12 e 14 del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, per intimarlo ad accogliere la richiesta dell’avvocato e a darne immediata comunicazione (almeno cinque giorni dalla data d’inizio del concorso), affinché siano soddisfatti diritti Costituzionalmente garantiti.

Vi terremo informati sul prosieguo della vicenda


Benefici combattentistici

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Preambolo

Riconoscimento dei benefici combattentistici con la correlata supervalutazione dei periodi di svolgimento di servizio in missioni di pace per conto dell’O.N.U. per il personale delle Forze Armate.

Le norme

Le norme di riferimento sono l’art. 3 della L. n. 390/50, l’articolo unico della L. 1746/62, l’art. 18 del D.P.R. n. 1092/73, e l’art. 5 del D. Lgs. 165/97.

La questione

Il caso riguarda personale delle Forze Armate, in pensione, che nel corso della sua carriera aveva preso parte a missioni per conto dell’O.N.U. (tutte comprese nell’ambito dell’elencazione contenuta nella determinazione dello Stato Maggiore della Difesa in data 10.05.2013) e, in ragione di ciò, aveva richiesto al Ministero della Difesa e all’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale), senza alcun esito, il riconoscimento dei benefici combattentistici per i periodi di missione effettuati con la correlata supervalutazione del servizio ai fini pensionistici e della determinazione dell’indennità di buona uscita. Inoltre veniva richiesto di riconoscere il diritto alla rideterminazione del trattamento pensionistico con i benefici di legge, con i relativi arretrati, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria come per legge.
I benefici combattentistici sono riconosciuti al personale che abbia prestato servizio in “zone d’intervento” sulla base di quanto stabilito dall’articolo unico della L.1746/62: “Al personale militare, che per conto dell’O.N.U. abbia prestato o presti servizio in zone d’intervento, sono estesi i benefici previsti dalle norme in favore dei combattenti. Le zone d’intervento sono indicate con apposite disposizioni dello Stato Maggiore della Difesa”.
Per “zone d’intervento” si intendono quelle aree estere, ricomprese nell’elencazione contenuta in una determina dello Stato Maggiore della Difesa aggiornata con cadenza biennale, nelle quali viene impiegato un contingente militare italiano nell’ambito di una forza multinazionale per lo svolgimento di operazioni militari.
Il riconoscimento dei benefici combattentistici deve essere attestato, su disposizione del Ministero della Difesa, apportando la relativa variazione al foglio matricolare dei militari che hanno preso parte alle missioni, con espressa indicazione del periodo di servizio prestato e del diritto ai benefici per campagna di guerra.
L’art.18 del D.P.R. 1092/73, inoltre, stabilisce che: “il servizio computabile ai fini pensionistici è aumentato di un anno per ogni campagna di guerra riconosciuta ai sensi delle disposizioni vigenti in materia”. La supervalutazione derivante dal riconoscimento dei benefici combattentistici, non essendo ricompresa fra le voci indicate dall’art.5 del D.Lgs. 165/97, è da calcolare senza alcuna limitazione e quindi non è soggetta alla limitazione quinquennale di cui all’art.5 del D.Lgs. 165/97.

Procedimento

Con sentenza n. 456/2015, la Corte dei Conti Puglia accogliendo il ricorso presentato dal personale delle Forze Armate in pensione, stabiliva che “L’articolo unico della predetta legge (1746/62 ndr) dispone: “Al personale militare, che per conto dell’O.N.U. abbia prestato o presti servizio in zone d’intervento, sono estesi i benefici previsti dalle norme in favore dei combattenti. Le zone d’intervento sono indicate con apposite disposizioni dello Stato Maggiore della Difesa”. Lo Stato Maggiore della Difesa, con determina del 10.05.2013 ha stabilito, ai sensi e per gli effetti della legge 1746/62, le “zone d’intervento” con i periodi di riferimento nei vari territori di svolgimento delle operazioni per conto dell’O.N.U..
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo unico della L. n. 1746/62, con la sentenza n. 240 del 2016, dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale e stabiliva, quindi, che fosse errata una equiparazione tra le campagne di guerra e le missioni di pace O.N.U., escludendo la possibilità per i militari impegnati sin dal dopo guerra in tali missioni di vedersi riconosciuti i benefici combattentistici.
Tuttavia, con una successiva sentenza della Corte dei Conti d’Appello, la n. 518/17, viene confermata la sentenza n. 456/15 della Corte dei Conti Puglia e viene riconosciuto il diritto dei ricorrenti “alla rideterminazione del proprio trattamento pensionistico con i benefici previsti dalla legge 1746/62, da calcolarsi mediante l’aumento del servizio computabile in relazione alle campagne di guerra, da riconoscersi secondo il disposto di cui all’art.3 della L. n. 390/50 ai periodi indicati in motivazione durante i quali gli stessi hanno prestato servizio in zone d’intervento per conto dell’O.N.U.; il diritto a ricevere gli arretrati a tale titolo spettanti, maggiorati, a decorrere dalla scadenza delle singole rate, degli interessi legali ed eventualmente, nei limiti del maggior importo differenziale , della rivalutazione monetaria calcolata, anno per anno, secondo gli indici ISTAT”.
Inoltre, un’ulteriore sentenza della Corte dei Conti, la n. 65/2018, quale esito di un giudizio promosso nel 2015 da un sottufficiale dell’Esercito, in pensione, richiama la sentenza n. 456/2016 e dichiara che: …….Va soggiunto, peraltro, che l’interpretazione seguita dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 240/2016 non tiene conto della evoluzione del concetto di “missioni di pace”, che si caratterizzano sempre più per svolgersi in veri e propri scenari di guerra, per cui è semplicemente un eufemismo quello di chiamare simili interventi in conflitti armati come “missioni di pace”.


Licenziamento verbale

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Preambolo

Nella previsione di un lavoratore vittima di un licenziamento verbale che chiede di riconoscere l’inefficacia di tale forma di recesso datoriale e la rispettiva disciplina sanzionatoria.
Le norme

Le norme di riferimento sono l’art. 2 della legge 604/1966, come novellato dall’art. 2 della legge 108/1990 e dall’art. 2 l. 98/12 , l’art. 18 l. 300/70 (c.d. Statuto dei lavoratori)
La questione

Il caso riguarda una collaboratrice che lavorava con contratto di inserimento della durata di 18 mesi (d.lgs n. 276/03 attuativo della l. 30/03 c.d. Legge-Biagi, contratto abrogato dalla l. 92/2012) in un centro estetico e, in seguito alla sua scadenza, proseguiva la sua collaborazione mantenendo l’identica qualifica e mansione, trasformando ope legis il suo rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, come da normativa di riferimento che vietava la proroga oltre il limite massimo di durata consentito (18 mesi). In seguito accadeva che la stessa, giunta sul posto di lavoro per riprendere la propria attività dopo il periodo di ferie concordato, apprendeva del cambio della denominazione sociale del centro estetico e veniva licenziata verbalmente ed allontanata senza ricevere alcuna motivazione, pertanto senza alcun atto formale scritto. Al Centro per l’impiego (Cpi) scopriva che il recesso del suo rapporto di lavoro era stato ivi comunicato (modello UNILav) già molti giorni prima, ovvero durante il periodo di ferie, nonché motivato con la cessazione dell’attività commerciale, difatti mai avvenuta, essendo mutato semplicemente il nome della società ma non la proprietà e nemmeno la direzione della stessa.
Tale ipotesi rientra nella fattispecie legislativa definita “assetto proprietario sostanzialmente coincidente” che si verifica allorquando tra un’impresa o una società che si estingue (e dunque licenza apparentemente in modo legittimo) ed una di nuova costituzione vi siano elementi di continuità quali, come nel caso di specie, il comune nucleo proprietario, vale a dire la conservazione dello stesso assetto proprietario o compagine sociale, ossia chi concretamente finanzia l’impresa (da distinguere da chi invece la gestisce, c.d. management). Si tratta di un modus operandi spesso utilizzato dalle imprese per licenziare o per ridurre il personale e, in taluni casi, per riassumerlo a condizioni più vantaggiose, che aggira fraudolentemente la legge.
Per quanto attiene l’esercizio incorretto del diritto di recesso dell’imprenditore, rientrante nella più generale ricostruzione dottrinale del “licenziamento ad nutum” (o libera recedibilità) contrario alla normativa giuslavorista per gran parte delle categorie dei lavoratori, va annoverato che tale diritto richiede il rispetto delle formalità procedurali previste dalla legge e in primis quella della comunicazione per iscritto, a pena di inefficacia, la cui ragione sta nel rendere inequivocabilmente edotto il lavoratore della fine del rapporto di lavoro e dei motivi specifici che lo hanno determinato, affinché possa meglio esercitare il proprio diritto alla difesa. In altri termini, vi è un principio garantista che permea tutta la suddetta procedura, fatta di una serie di atti legali posti in modo consequenziale, dove il vizio “a monte” anche di uno solo rende nullo il licenziamento.
Procedimento

Il Tribunale di Bari sez. lavoro, adito con ricorso ai sensi della legge Fornero, ha dichiarato “inefficace” il licenziamento comminato ed ha condannato il centro estetico a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro nonché a corrisponderle un’indennità risarcitoria commisurata “all’ultima retribuzione globale di fatto” computata dal giorno del licenziamento illegittimo sino a quello dell’effettiva reintegrazione, come sancito dall’art. 18 l. 300/1970 (la retribuzione globale corrisponde a quella che “il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi di cui non sia certa la percezione e quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere eventuale, occasionale o eccezionale”, Corte di Cassazione sent. n. 15006/2015).


Retribuzione in attesa di transito nei ruoli civili

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Preambolo

Riconoscimento della restituzione di quanto non percepito durante il periodo di tempo intercorrente fra l’accoglimento dell’istanza di transito dall’impiego civile all’impiego militare per il personale militare e la stipula del nuovo contratto di lavoro nell’area civile.

Le norme

La norma di riferimento è il D.M. 18 aprile 2002 rubricato “Transito di personale delle Forze armate e dell’Arma dei carabinieri giudicato non idoneo al servizio militare incondizionato per lesioni dipendenti o non d causa di servigio nelle aree funzionali del personale civile del Ministero della difesa”.

La questione

Nella fattispecie, un dipendente del Ministero della Difesa veniva giudicato “permanentemente non idoneo al servizio militare” e a seguito di tanto lo stesso chiedeva di transitare nell’area funzionale del personale civile. Dunque la P.A. collocava il dipendente in aspettativa in attesa della sottoscrizione di nuovo contratto di lavoro nell’area civile, con una decurtazione del 50% della retribuzione per il periodo di oltre un anno fino all’azzeramento della stessa per il superamento del limite dei 18 mesi previsto.

Procedimento

Avverso a detta situazione, il dipendente proponeva ricorso per l’accertamento del proprio diritto al recupero di quanto dovuto nel periodo intercorrente dall’accoglimento dell’istanza di transito fino alla firma del contratto di lavoro.
Il TAR Lecce con sentenza n. 998/2013, il TAR Lecce con sentenza n. 2266/2015 e il TAR Venezia con sentenza n. 1476/2014, in applicazione di quanto stabilito dal .M. 18 aprile 2002, hanno precisato che l’istanza di transito una volta presentata determina il decorrere di 150 giorni a disposizione della PA per pronunciarsi a riguardo; qualora la PA non dovesse manifestare espressamente alcuna volontà entro il termine stabilito, la mancata risposta equivale ad accoglimento dell’istanza di transito dall’impiego militare a quello civile. Dunque, per l’intervenuto accoglimento, la situazione del militare non può dirsi assimilabile a quella del militare in aspettativa (al quale spetta il solo mantenimento), ragion per cui allo stesso spetta la retribuzione piena.


Il Mobbing attraverso il procedimento disciplinare

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Preambolo

Frequentemente accade che all’interno delle Forze Armate si verifichino episodi di mobbig,ossia comportamenti vessatori esercitati dal superiore nei confronti dell’inferiore nel rapporto gerarchico.
Le norme

Trattasi spesso della violazione delle norme previste dal DPR 15 marzo 2010 n. 90, Testo Unico delle Disposizioni Regolamentari in materia di Ordinamento Militare nonché della violazione delle norme del Codice dell’Ordinamento Militare.

La questione

Nella fattispecie, l’Ufficiale, senza dare comunicazione al proprio comando o ente, aveva partecipato ad una trasmissione radiofonica nel corso della quale veniva intervistato a proposito di un articolo da lui scritto in precedenza, la cui pubblicazione era stata peraltro autorizzata dal Ministero della Difesa, e che riportava dati e informazioni di dominio pubblico, non soggette, quindi, al segreto d’ufficio. A seguito di tanto, veniva notificato all’Ufficiale un rapporto disciplinare che segnalava la violazione di talune norme previste dal T.U. e dal codice dell’O.M., quali gli artt. 712 (doveri attinenti al giuramento), 713 co. 2 (doveri attinenti alla tutela del segreto e al riserbo sulle questioni militari), 715 co. 1 (doveri attinenti ala dipendenza gerarchica), 722 (doveri attinenti ala tutela del segreto e al riserbo sulle questioni militari), 729 co. 1(esecuzione degli ordini), 748 co.5 (comunicazioni dei militari) etc. Tuttavia e nonostante il parere della Commissione di Disciplina che non rilevava la sussistenza di alcuna delle suddette violazioni,il Comandante di Corpo decideva di irrogare ugualmente la sanzione del rimprovero in relazione alla ritenuta violazione degli art. 715, co.1 e 748 co.5 del T.U. , pregiudicando in tal modo la futura progressione di carriera dell’Ufficiale destinatario del provvedimento.

Procedimento

Avverso a detto provvedimento, si procedeva – da prima – esperendo ricorso gerarchico, che veniva rigettato, e – poi – a seguito si tanto si procedeva al deposito di ricorso presso il T.A.R., richiedendo sia l’annullamento del provvedimento che dispone la sanzione comminata sia l’annullamento di tutti gli atti presupposti e conseguenti.

Con sentenza n. 807/2017 il T.A.R. di Torino riconosceva l’illegittimità sia del provvedimento negativo emesso in sede di ricorso gerarchico, sia del provvedimento che disponeva la sanzione adducendo che “i militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero,salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”, ragion per cui, in mancanza del carattere di riservatezza delle informazioni che si intende divulgare, l’autorizzazione non è da ritenersi obbligatoria.


Riconoscimento differenze retributive per espletamento della mansione superiore – 5°/4° livello CCNL Telecomunicazioni

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Preambolo

Nel caso del lavoratore che svolge mansioni superiori rispetto all’inquadramento contrattuale, questi ha diritto a vedersi riconoscere un inquadramento contrattuale superiore in ragione delle mansioni effettivamente svolte.
Le norme

Le norme di riferimento rimangono sempre quelle dettate dai contratti collettivi nazionali.

La questione

Trattasi di una lavoratrice assunta in qualità di operatrice di call center/customer care presso una nota società di telefonia veniva adibita in totale autonomia ad attività di maggiore complessità che richiedeva un elevata professionalità. In questo caso la difficoltà risiedeva nella sottile distinzione tra il 4° ed il 5° livello di inquadramento come descritti nel CCNL Telecomunicazioni. Difatti i compiti assegnati al 4° a al 5° livello non presentano differenze particolari se non che “all’operatore specialista di customer care di 5° livello è richiesto, oltre allo svolgimento delle stese mansioni operate dall’operatore di call /customer care di 4° livello, un quid pluris rappresentato dall’attività di interfaccia non standardizzata di tipo personalizzato, in logica – one to one- verso la clientela di fascia alta, con l’utilizzo di sistemi complessi”. Dunque il discrimen tra il 4° ed il 5° livello sta nel diverso grado di professionalità richiesto, definito qualificato per il 4° ed elevato al 5°.
Procedimento

La lavoratrice agiva in giudizio per l’accertamento del proprio diritto al riconoscimento dell’inquadramento contrattuale superiore e chiedeva la condanna della società resistente al pagamento delle differenze retributive maturate.
Con sentenza del 30 marzo 2017 n. 1891, il Tribunale di Bari, confermando l’orientamento della giurisprudenza, ha riconosciuto alla ricorrente l’inquadramento contrattuale superiore, in ragione delle mansioni da lei effettivamente svolte e, conseguentemente, ha condannato la società resistente ad erogare le somme dovute a titolo di differenze retributive sino al momento del deposito del ricorso.


Il demansionamento nella Pubblica Amministrazione

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L’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto e alle mansioni acquisite successivamente. Nell’ambito del pubblico impiego, però, considerate le particolarità del rapporto di lavoro intercorrente tra l’amministrazione e il dipendente e della diversa qualificazione di quest’ultimo rispetto al settore privato, per diverso tempo si è avuta notevole difficoltà nell’applicazione dell’art. 2103 c.c.

La Cassazione, Sez. Lavoro, con la pronuncia n. 2011, del 26 gennaio 2017, si è espressa definitivamente sul punto, mettendo fine all’annoso contrasto giurisprudenziale vertente sull’applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 52, D.Lgs n. 165 del 2001 in caso di demansionamento del pubblico dipendente.

In passato, infatti, la giurisprudenza è più volte tornata sul punto, affermando talvolta la prevalenza del dato sostanziale sul dato formale e, quindi, privilegiando l’applicazione dell’art. 2103 c.c., talora affermando la prevalenza dell’applicazione dell’art. 52 del D.Lgs n. 165 del 2001 e, di conseguenza, del dato formale sul dato sostanziale.

Più di recente, la Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamata a redimere il contrasto giurisprudenziale, con pronuncia n. 8740 del 4 aprile 2008, ha chiarito che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, in tema di mansioni è applicabile esclusivamente l’art. 52 del D.Lgs n. 165 del 2001. In tal modo, la Cassazione si è posta sbarrando completamente la strada all’applicazione dell’art. 2103 c.c., affermando che nell’ambito del pubblico impiego la questione del mansionario viene disciplinato in maniera esaustiva dall’art. 52, D.Lgs n. 165 del 2001, relegando l’applicazione dell’art. 2103 c.c. ad un ambito piuttosto marginale.

Dunque, l’art. 52, D.Lgs n. 165/2001, disciplina completamente la materia e ciò comporta la prevalenza di quest’ultimo rispetto le disposizioni codicistiche. L’art. 52, così anche come innovato dalle disposizioni successive, stabilisce che, “qualora le nuove mansioni affidate al pubblico dipendente rientrino nella medesima area professionale appartenente al contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni”, non si ha demansionamento. Difatti, la Cassazione, con l’ultima pronuncia del 26 gennaio 2017 n. 2011, ha ribadito che, in materia di mansioni nel pubblico impiego contrattualizzato, non si applica l’art 2103 c.c., essendo la materia compiutamente disciplinata dall’art. 52, D.Lgs n. 165/2001, il quale, per le esigenze di duttilità del servizio pubblico e per garantire il buon andamento della pubblica amministrazione, assegna rilievo solo al criterio della equivalenza formale con riferimento alla qualificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità concretamente acquisita dal dipendente sino a quel momento.

Alla luce di quanto sopra, quindi, il punto di partenza essenziale per esaminare la materia nel pubblico impiego e per comprendere quando si è di fronte ad un demansionamento, è dato dalla verifica dell’area professionale e della fascia di appartenenza. In soldoni, il pubblico dipendente, qualora venga adibito a mansioni inferiori ma che rientrino nella stessa area professionale di appartenenza, anche se costretto ad effettuare attività lavorative di minor pregio rispetto, appunto, a quelle precedentemente assegnate, non potrà essere considerato demansionato.

Quindi, quando effettivamente il dipendente pubblico potrà dirsi demansionato? Si verificherà un’ipotesi di demansionamento qualora il lavoratore venga adibito a mansioni che rientrino in aree professionali inferiori e che non gli permettano di utilizzare quel corredo di nozioni, esperienza e il bagaglio professionale acquisito sino a quel momento. Resta, inoltre, sempre vietata l’ipotesi di svuotamento totale delle mansioni se si protrae per un lungo lasso temporale.

Dunque, in base a quanto sopra esposto, il pubblico dipendente, per verificare se sia stato demansionato, dovrà confrontare le mansioni relative all’area professionale di appartenenza con le mansioni che effettivamente svolge. Ove ritenga che le attività svolte siano relative ad aree professionali inferiori, oppure si sia operato nei suoi confronti lo svuotamento della mansione costringendolo all’assoluta inattività, allora il dipendente potrà intraprendere un’azione giudiziale affinché possa essere riconosciuto il “danno da perdita di chance”. La risarcibilità del danno è parametrata alla retribuzione di riferimento e quantificata in misura percentuale rispetto al tipo e all’entità del demansionamento, cosicché la richiesta risarcitoria si concretizzerà con l’applicazione di una percentuale sulla retribuzione mensile.


Reato e procedimento disciplinare nel pubblico impiego

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Nel pubblico impiego, come nel privato, il procedimento disciplinare, instaurato contro il dipendente per una infrazione commessa, può concludersi con una sanzione che può essere definitiva o non. L’art. 55-quater del D.lgs. 165/2001, come modificato dall’art. 69 del D.lgs. 150/2009, riportano al principio secondo il quale, oltre alle motivazioni che prevedono il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, e salvo ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, la sanzione disciplinare del licenziamento è prevista, in maniera riassuntiva ma non esaustiva, anche nelle seguenti ipotesi: per falsa attestazione della presenza di servizio; per l’assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiori a tre nell’arco di un biennio; per l’ingiustificato rifiuto al trasferimento disposto dalla amministrazione; per falsità documentale dichiarative commesse ai fini della instaurazione di un rapporto di lavoro; per la reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive, moleste, minacciose ed ingiuriose; una condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ovvero l’estinzione determinata del rapporto di lavoro. Quest’ultima ipotesi non risulta di facile applicazione.

Il contratto collettivo nazionale non spiega nel dettaglio quelle che possono essere le conseguenze dell’instaurazione di un procedimento penale e della sanzione legata alla eventuale assoluzione con formula piena o nel caso in cui il reato, per il lungo procedere del tempo, si sia prescritto. Difatti, giurisprudenza costante riporta, ormai in maniera granitica, il principio secondo il quale il procedimento disciplinare può discostarsi dalla risultanza processuale nell’ambito della responsabilità penale.

L’assoluzione con formula piena non sempre comporta la cancellazione del procedimento disciplinare o dell’applicazione della sanzione derivata. Al tempo stesso, non può ritenersi ictu oculi che la prescrizione del reato ascritto al dipendente possa comportare, dal punto di vista disciplinare, la eliminazione del procedimento stesso o la cancellazione della sanzione derivante. Difatti, nonostante le pronunce del Giudicante possano essere favorevoli al dipendente, nel caso della prescrizione del reato o nel caso di una assoluzione, anche con formula piena, l’amministrazione può sempre e comunque trarre dagli atti del procedimento penale argomenti utili all’esame della condotta del dipendente. In tal senso, vi dovrebbe essere una sorta di comunicazione tra la pubblica amministrazione e la Procura della Repubblica e l’autorità giudicante, che dovrebbero trasmettere gli atti all’amministrazione affinché quest’ultima possa valutare la condotta posta in essere dal dipendente. Durante il corso del processo possono emergere atti e comportamenti, che sebbene non siano perseguibili penalmente, possano ugualmente rientrare fra gli atti che il pubblico dipendente non deve porre in essere affinché non venga meno la fiducia datoriale nei suoi confronti. Difatti, sovente, si realizza che, a fronte di una sentenza di assoluzione, l’amministrazione, a propria discrezionalità, fa salvo il procedimento disciplinare e questo stesso si conclude con una sanzione di tipo conservativo, escludendo così il licenziamento.

Discorso simile si deve attribuire alla prescrizione del reato, in quanto, qualora il processo si interrompa per l’avvenuta prescrizione del reato ascritto al pubblico dipendente, l’amministrazione può ugualmente trarre dagli atti di causa elementi utili per capire il tipo di infrazione che è stata commessa dal dipendente e, quindi, derivare da questi stessi elementi le conseguenze utili al procedimento disciplinare attraverso l’applicazione della sanzione, che potrebbe anche essere di tipo definitivo.

In conclusione, il pubblico dipendente che, a seguito di un procedimento penale ottiene una sentenza di assoluzione, potrebbe, a discrezione della amministrazione, o vedersi interrompere il procedimento disciplinare, o subire ugualmente lo stesso, il quale potrebbe concludersi con una sanzione di tipo conservativo (e, quindi, di entità anche notevolmente inferiore al licenziamento). Mentre, nel caso di procedimenti penali interrotti a causa dell’intervento della prescrizione, nella maggioranza dei casi, il procedimento disciplinare, sempre a discrezione dell’amministrazione, permane e può o concludersi con la sanzione definitiva del licenziamento oppure con sanzioni di tipo non definitivo. Appare chiaro aggiungere che, nel caso in cui intervenga una sentenza di assoluzione o di interruzione del processo penale per intervenuta prescrizione, qualora il procedimento disciplinare instaurato discrezionalmente si concluda con una sanzione, questa potrà sempre essere impugnata se carente dei requisiti previsti per legge e soprattutto quando appare sproporzionata rispetto ai fatti addebitati. A ciò aggiungasi che il pubblico dipendente potrà comunque impugnare la sanzione anche a seguito di sentenza di condanna definitiva o negli altri casi previsti, anche quando l’amministrazione non abbia rispettato i termini perentori del procedimento disciplinare e della afflizione della sanzione.


Corte dei Conti – Diritto a percepire il trattamento pensionistico dal primo giorno successivo al collocamento in pensione per i lavoratori del comparto scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica

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Una dipendente del Ministero dell’Istruzione, indicata dall’INPS quale beneficiaria della salvaguardia di cui alla legge 147/2014 (“lavoratori che nel corso dell’anno 2011 risultano essere in congedo ai sensi dell’articolo 42, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n.151, e successive modificazioni,o aver fruito di permessi ai sensi dell’articolo 33 , comma 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni, e che perfezionano i requisiti anagrafici e contributivi utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico, secondo la disciplina vigente alla data di entrata in vigore del decreto legge 201 del 2011, entro il 6 gennaio 2016″), inoltrava domanda di collocamento in pensione a decorrere dal 01.12.2015.

La Ragioneria Territoriale dello Stato, ritenendo non più dovuto il pagamento dello stipendio a carico del Ministero, ma dovuto il trattamento pensionistico a carico dell’INPS a partire dal 01.12.2015, procedeva nei confronti della lavoratrice per il recupero dell’importo erogato a titolo di stipendio del mese dicembre 2015.

Successivamente l’Inps inviava alla dipendente una comunicazione contenente l’Atto di Conferimento Pensione diretta Ordinaria nel quale veniva indicata come data di decorrenza del trattamento pensionistico il 01.01.2016.

Alla dipendente/pensionata veniva quindi negato lo stipendio del mese di dicembre e non veniva neanche mai più erogata la pensione relativa allo stesso mese.

La lavoratrice/pensionata patrocinata dallo Studio Avvocato Lieggi costituiva formalmente in mora l’Inps e, atteso il mancato riscontro da parte dell’istituto, depositava ricorso presso la Corte dei Conti al fine di ottenere il pagamento del rateo di pensione relativo al mese di dicembre 2015.

La posizione dei lavoratori oggetto della salvaguardia di cui alla L. 147/2014 è regolata e definita dall’art. 1 comma 264 della L. 208 del 28.12.2015 che dispone  che “I lavoratori del comparto scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM) i quali, a seguito dell’attività di monitoraggio e verifica relativa alle misure di salvaguardia che ha dato luogo alla rideterminazione degli oneri di cui al comma 263 del presente articolo e che, in applicazione del procedimento di cui all’articolo 1, comma 193, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, che ha disposto il riconoscimento dell’applicazione della salvaguardia anche ai titolari di congedo, ai sensi dell’articolo 42, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, o di permessi, ai sensi dell’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, eccedenti il limite numerico previsto dal decreto-legge 31 agosto 2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 2013, n. 124, e dalla legge 10 ottobre 2014, n. 147, hanno ricevuto la lettera di certificazione del diritto a pensione con decorrenza dal 1º settembre 2015, possono accedere al trattamento pensionistico a decorrere dal primo giorno successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, anche in deroga alle disposizioni del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, e dell’articolo 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n. 449”.

Trattenuta la causa in decisione, la Corte dei Conti ha ritenuto fondato ed accolto il ricorso sostenendo che “La questione di diritto dirimente la controversia, e su cui questo Giudicante è chiamato a pronunciarsi, riguarda la decorrenza del trattamento pensionistico de quo, se cioè esso possa retroagire o meno rispetto all’entrata in vigore della norma di cui all’art. 1 comma 264, l. n. 208/2015 (fissata all’1.1.2016) prevedente il beneficio agevolativo in parola. Giova, all’uopo, rammentare che, ai sensi della cennata norma di legge, << I lavoratori del comparto scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica(AFAM) i quali, a seguito dell’attività di monitoraggio e verifica relativa alle misure di salvaguardia (..) hanno ricevuto la lettera di certificazione del diritto a pensione con decorrenza dal 1º settembre 2015, possono accedere al trattamento pensionistico a decorrere dal primo giorno successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, anche in deroga alle disposizioni del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 e dell’articolo 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n. 449.>>. Va, allora, valorizzato il dato normativo di cui all’art. 1, comma 264, l. cit. che individua inequivocamente (in claris non fit interpretatio) nel primo giorno successivo alla cessazione dal servizio la decorrenza in parola. E ciò considerando che gli effetti della legge, pur entrata in vigore successivamente, ben possono “saldarsi” con situazioni giuridiche sorte antecedentemente, se così viene previsto, essendo ciò profilo diverso e distinto dall’inizio dell’efficacia cogente della legge medesima. Del resto, ad opinare diversamente, il pensionato verrebbe irrazionalmente privato di una o più mensilità, mancando a costui ex abrupto il sostentamento economico, in palese violazione dell’art. 38, comma 2, Cost. Una interpretazione costituzionalmente orientata della norma non può, dunque, condurre che nei surriferiti termini”

Ciò posto  Corte dei Conti ha quindi riconosciuto il diritto a pensione secondo la decorrenza domandata e condannato l’INPS alla liquidazione dell’importo del rateo di dicembre 2015 non versato oltre che al pagamento degli accessori, dal 1.12.2015 fino all’effettivo soddisfo.


Annullamento sanzione disciplinare. Comunicazioni obbligatorie e diritto di cronaca del militare

In Diritto del lavoro e della previdenza sociale il

Il Tribunale Amministrativo per il Piemonte (Torino, Sez. I), pronunciandosi sul ricorso proposto da un Ufficiale dell’Esercito, difeso dall’Avv. Laura Lieggi, avverso la sanzione disciplinare ricevuta, ha annullato il provvedimento disciplinare.

La sentenza ha affrontato, tra i vari temi emersi nella disamina di un articolato e complesso procedimento disciplinare, diversi aspetti di un tema che frequentemente diviene oggetto di provvedimenti disciplinari: la mancata comunicazione ex art. 748 D.P.R. 90/2015, così come ha fornito importanti spunti di riflessione sulla demarcazione fra l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 748 del D.P.R. 90/2010 e la violazione degli artt. 1472 e 1473 del D. L.vo 66/2010 che disciplinano i casi in cui i militari debbono richiedere l’autorizzazione al fine di pubblicare scritti, tenere conferenze e manifestare pubblicamente il proprio pensiero esercitando legittimamente diritti propri e comuni a tutti i cittadini.

Più nel dettaglio, il procedimento disciplinare a carico del ricorrente era stato avviato a seguito della sua partecipazione ad una trasmissione radiofonica nella quale l’Ufficiale era stato intervistato in merito ad un articolo, da egli stesso scritto, la cui pubblicazione era stata già autorizzata dal Ministero della Difesa, riportando esclusivamente notizie di dominio pubblico e non facendo riferimento alcuno a circostanze coperte dalla segretezza dell’ufficio.

Il rapporto disciplinare notificato all’Ufficiale rilevava, con sovrabbondante ed estrema gravità, la violazione degli articoli 712 (doveri attinenti al giuramento), 713 comma 2 (doveri attinenti al grado), 715 comma 1 let. b) (doveri attinenti alla dipendenza gerarchica), 722 (doveri attinenti alla tutela del segreto e al riserbo sulle questioni militari) , 729 (esecuzione degli ordini) comma 1, 732 (contegno del militare) comma 1 e 748 (comunicazioni dei militari) comma 5 let. b) del D.P.R. 15 marzo 2010 n. 90 (Testo Unico delle Disposizioni Regolamentari in materia di Ordinamento Militare), nonché l’art. 1472 (libertà di manifestazione del pensiero) del Codice dell’Ordinamento Militare, come richiamati all’art. 751 punto 1) “comportamenti che possono essere puniti con la consegna di rigore comma 1, lettera a) al punto 1) “violazione dei doveri attinenti al giuramento prestato; punto 3) “violazione rilevante dei doveri attinenti al grado e alle funzioni del proprio stato”; nonché punto 6) “trattazione pubblica non autorizzata di argomenti di carattere riservato d’interesse militare e di servizio o comunque attinenti al segreto d’ufficio”.

Avviato il procedimento disciplinare, la Commissione di disciplina non rilevava la sussistenza delle violazioni contestate ed esprimeva parere negativo in merito alla irrogazione di “alcuna sanzione disciplinare”.

Il Comandante di Corpo, contrariamente a quanto stabilito dalla Commissione al termine dell’istruttoria, decideva di irrogare comunque la sanzione del rimprovero in relazione alla ritenuta violazione degli artt. 715 comma 1 e 748 comma 5 del D.P.R. 90/2010.

Contro tale provvedimento l’Ufficiale, patrocinato dallo Studio Legale Lieggi, esperiva in primis ricorso gerarchico e, a seguito di rigetto dello stesso, depositava ricorso presso il T.A.R. di Torino, richiedendo l’annullamento del provvedimento che disponeva la sanzione disciplinare, nonché l’annullamento di tutti gli atti presupposti e conseguenti.

Il Tar adito ha ritenuto ammissibili le censure con le quali la difesa ha segnatamente evidenziato che in relazione alla partecipazione alla trasmissione radiofonica non sussisteva “alcun particolare obbligo di preventiva comunicazione, non venendo in considerazione una attività idonea ad interferire con il servizio; parimenti risultano ammissibili le censure fondate sulla violazione degli artt. 1472 e 1473 D. L.vo 66/2010, atteso che il provvedimento impugnato, a differenza di quello originario, fa riferimento a tali norme per confermare la sanzione e per concludere che il ricorrente avrebbe dovuto munirsi di autorizzazione dell’Ente militare competente”.

Ha rilevato il Tar che nel provvedimento con il quale era stato respinto il ricorso gerarchico non venivano più richiamati gli artt. 715 e 748 del D.P.R. 90/2010, bensì gli artt. 1472 e 1473 del D. L.vo 66/2010 (Codice dell’Ordinamento Militare), che disciplinano i casi in cui i militari debbono richiedere l’autorizzazione al fine di pubblicare scritti, tenere conferenze e manifestare pubblicamente il proprio pensiero, e quindi, “pronunciandosi sul ricorso gerarchico l’addebito mosso al ricorrente è stato implicitamente riportato alla contestazione originaria, che si fondava sull’aver, il ricorrente, omesso di chiedere l’autorizzazione a partecipare alla trasmissione radiofonica, e non già, semplicemente, l’aver omesso di darne comunicazione” con ciò creando una differenziazione fra la contestazione degli addebiti e la motivazione finale del provvedimento disciplinare: pratica non consentita ed illegittima.

L’originario addebito di aver violato l’art.1472, partecipando ad una trasmissione radiofonica abbandonato nel provvedimento sanzionatorio e poi sostanzialmente “ripescato” in sede di decisione sul ricorso gerarchico, é rimasto indimostrato “e come tale non giustificava la sanzione applicata al ricorrente per la ragione che, si ripete, la violazione dell’art. 1472 si ricollega non alla violazione di qualsiasi disposizione che faccia obbligo di chiedere una preventiva autorizzazione, bensì alla violazione dell’obbligo di rendere pubbliche notizie riservate o coperte da segreto”.

Analizzando l’originario provvedimento sanzionatorio, il Tar ha esaminato l’accusa “di aver violato l’art. 748 comma 5 del D.P.R. 90/2010, per il mero fatto di non aver comunicato alla di lui linea di comando, …., la partecipazione alla trasmissione radiofonica del 30 settembre 2015”.

Tale disamina ha consentito di ribadire ancora una volta  che l’art. 748 del D.P.R. 9072010 disciplina “i casi in cui il militare deve effettuare obbligatoriamente delle comunicazioni, essenzialmente riconducibili ad assenze per motivi di salute o per altra “grave ragione”. Al comma 5, che è quello richiamato nel provvedimento del 22 dicembre 2015, si legge che “Il militare deve, altresì, dare sollecita comunicazione al proprio comando o ente: a) di ogni cambiamento di stato civile e di famiglia; b) degli eventi in cui è rimasto coinvolto e che possono avere riflessi sul servizio.” La disposizione in parola annette l’obbligo di effettuare la comunicazione non relativamente ad ogni e qualsiasi evento che coinvolga il militare ma solo relativamente a quelle situazioni che “possono avere riflessi sul servizio”, e che possono cagionare disfunzioni: invero, tenuto conto del fatto che la previsione in parola è contenuta nel contesto di una norma che si preoccupa di stabilire l’obbligo del militare di avvisare tempestivamente i superiori delle proprie assenze, per dar modo a costoro di disporre la relativa sostituzione, nonché dei mutamenti di stato civile e di famiglia, ancorquì, all’evidenza, in quanto eventi che possono comportare un maggior numero di assenze dei militari, è ragionevole affermare che anche nel caso divisato al comma 5 lett. b), vengono in considerazione solo situazioni idonee ad influire sul servizio reso dal singolo militare, nell’ottica di prevenire assenze future.

Non avendo quindi causato il ricorrente alcun tipo di disservizio, la sanzione applicata non può dunque reggersi sull’art. 748 comma 5 del D.P.R.90/2010, che contempla casi tipici di obbligo di comunicazione da parte dei militari.

Il caso ha dato modo di rilevare che non sussiste alcuna connessione fra l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 748 del D.P.R. 90/2010 e la violazione degli artt. 1472 e 1473 del D. L.vo 66/2010, i quali disciplinano i casi in cui i militari debbono richiedere l’autorizzazione al fine di pubblicare scritti, tenere conferenze e manifestare pubblicamente il proprio pensiero.

L’art. 1472 del D.L.vo 66/2010 stabilisce che “I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”. Il dovere dei militari di chiedere l’autorizzazione al fine di manifestare pubblicamente il proprio pensiero è chiaramente legato, dalla norma, all’essere l’argomento da trattare “riservato a carattere militare o di servizio”, e dunque mancando tale carattere di riservatezza l’autorizzazione preventiva si deve ritenere non doverosa, al più facoltativa.

Il Collegio ha ritenuto, pertanto, che la violazione dell’art. 1472 si ricollega non alla violazione di qualsiasi disposizione che faccia obbligo di chiedere una preventiva autorizzazione, bensì alla violazione dell’obbligo di rendere pubbliche notizie riservate o coperte da segreto. “Da questo punto di vista il fatto che esistano circolari (quelle menzionate nel provvedimento del 1° marzo 2016) che impongono ad ogni militare di chiedere la preventiva autorizzazione in vista della partecipazione a qualsiasi manifestazione pubblica, non può assumere rilevanza al fine di stabilire l’eventuale violazione dell’art. 1472 C.O.M.: tali circolari stabiliscono un procedimento autorizzativo che tende a prevenire l’eventuale divulgazione di notizie riservate o coperte da segreto, ma la violazione di tale procedimento non implica, in sé e per sé, la effettiva divulgazione di notizie riservate o segrete.”

A tal proposito il Collegio ha affermato che le circolari del Ministero della Difesa in materia di informazione e comunicazione, pur effettivamente stabilendo la necessità che qualsiasi evento con finalità informativa cui sia chiamato a partecipare un militare è soggetto a preliminare autorizzazione, riguardano tecniche di comunicazione “che le Forze Armate devono osservare nei confronti del pubblico di cittadini allo scopo di rendere l’opinione pubblica edotta della attività delle stesse senza incorrere nel pericolo di rivelare notizie riservate o coperte da segreto. Tali circolari sono però dirette ai vertici delle Forze Armate, e quindi non sembra possano essere richiamate in modo pertinente al fine di individuare il contenuto di precisi obblighi e doveri a carico dei singoli militari.

La stessa previsione che “La partecipazione ad eventi e trasmissioni televisive (quiz, talent show, concorsi, ecc.) non hanno bisogno della preventiva autorizzazione della F.A. in quanto svolte nella sfera delle attività private, ma necessitano di essere comunicate per informazione sulla linea gerarchica.” si riferisce, “ragionevolmente, ad eventi nel corso dei quali possano essere trattati argomenti e/o riferite opinioni del militare non conosciute alla linea di comando del militare stesso: l’obbligo di comunicazione previsto dalla circolare in esame potrebbe quindi giustificarsi, se così interpretato, quale misura idonea a consentire al comando di esercitare, anche a posteriori, un controllo sulle dichiarazioni rese dal militare e nello stesso tempo a non interferire in maniera eccessivamente invadente con il diritto del militare di esprimere liberamente la propria opinione e la propria personalità.”