Studio Avvocato Lieggi

IL DATORE DI LAVORO NON MI CORRISPONDE LA RETRIBUZIONE. LAVORO IN APPALTO

In Diritto del lavoro e della previdenza sociale il

L’Art. 1655 del C. Civile definisce l’appalto di lavori o servizi come “Il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”.

Ciò significa che l’appaltatore si assume il rischio economico della prestazione.

Uno dei dubbi principali che caratterizzano la fattispecie dell’appalto riguarda il regime di Responsabilità Solidale che vige tra committente e appaltatore (eventualmente anche subappaltatore). Tale tipologia di responsabilità prevede, in sostanza, che se il datore di lavoro (appaltatore) non adempie all’obbligo di retribuzione nei confronti del lavoratore, dovrà farlo chi ha tratto vantaggio dalla prestazione lavorativa fornita, ossia il committente. La nozione di solidarietà appare chiarita nell’Art. 1292 del C. Civile che sancisce: “L’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri: oppure quando tra più creditori ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori”.

Nell’ambito dell’Appalto, proprio a tutela dei lavoratori impiegati nella realizzazione dell’opera per la quale il contratto di appalto è stato stipulato, la Legge impone che la responsabilità ricada sul Committente in caso di inadempienza da parte dell’Appaltatore. Parliamo, quindi, di un regime di Responsabilità Solidale.

Tale responsabilità fa riferimento ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali spettanti al lavoratore nel periodo in cui è stata adoperata la sua manodopera in esecuzione del contratto d’appalto. La disciplina sulla responsabilità solidale in merito alla fattispecie dell’appalto è contenuta nell’Art. 1676 C. Civile che sancisce che “coloro che, alle dipendenze dell’appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”, ma anche nell’ Art.29 comma 2 D.lgs. 273/2003 che sancisce che “il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori”.

Tali disposizioni attribuiscono al lavoratore la facoltà di agire in giudizio direttamente nei confronti del committente per il soddisfacimento dei crediti retributivi accumulati nel periodo durante il quale hanno prestato la propria manodopera per l’esecuzione del contratto di appalto.

Il committente, ovviamente, risponde solo limitatamente al debito generatosi nei confronti dell’appaltatore e, pertanto, nel caso in cui l’appaltatore abbia integralmente conseguito il corrispettivo convenuto per l’appalto o abbia corrisposto le retribuzioni ai propri ausiliari, viene automaticamente meno la responsabilità solidale del committente. Esiste però un termine di decadenza dell’operatività della garanzia. Esso è stato fissato a 2 anni dalla cessazione del contratto di appalto (Art. I comma 911 L. n. 296/2006).

Per quanto riguarda l’ONERE DELLA PROVA nei giudizi riguardanti la responsabilità solidale nel contratto di appalto, ci si è chiesti spesso se esso spetti al lavoratore o al committente. In merito a tale questione si è espressa la Corte di Cassazione nella Sent. n.834 del 15 gennaio 2019, sancendo che “Il principio di solidarietà tra committente, appaltatore e subappaltatore sancita dall’articolo 29, comma 2, del Dlgs. n. 276/03, che garantisce il lavoratore circa il pagamento dei trattamenti retributivi dovuti in relazione all’appalto cui ha personalmente dedicato le proprie energie lavorative esonera il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti gravanti su ciascuna delle società appaltatrici convenute in giudizio.

Possiamo dire, quindi, che secondo la Cassazione, la ripartizione interna dei debiti riguarda i due responsabili solidali (committente e appaltatore) mentre il lavoratore è semplicemente tenuto a provare di aver prestato la propria attività lavorativa ad essi. Pertanto, non spetterà al lavoratore dover provare che, durante il periodo per cui richiede il pagamento dei propri trattamenti retributivi, ha prestato la propria attività lavorativa in esecuzione del contratto di appalto, ma saranno le due parti che hanno giovato di tale prestazione lavorativa a dover fornire le prove utili a dirimere la controversia e a stabilire chi delle due dovrà adempiere all’obbligazione nei confronti del lavoratore.

Per saperne di più, manda un messaggio vocale all’avvocato Laura Lieggi al 349 444 2639 o scrivI una mail a legale@studioavvocatolieqqi.com.
Avv.Laura Lieggi

Lavoro agile o “smart working”: doveri datoriali e doveri del lavoratore

In Di Diritto,Diritto del lavoro e della previdenza sociale il

Preambolo

A seguito della diffusione dell’epidemia da Covid-19, è stata introdotta una nuova modalità di svolgimento del rapporto lavorativo. Questo complesso e delicato scenario di emergenza sanitaria, infatti, ha fatto emergere una rilevante necessità di continuazione dell’attività lavorativa, attesa l’impossibilità di raggiungere aziende, uffici o altri luoghi di lavoro. Dunque, si è resa necessaria l’implementazione del “lavoro agile”, svolto direttamente presso le abitazioni dei prestatori.

La legge dà una precisa definizione della predetta modalità lavorativa, intesa quale “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

In altre parole, è stata offerta la piena opportunità alle aziende, imprese e pubblici uffici di permettere la continuazione delle proprie attività da remoto, avvalendosi dell’ausilio di strumentazione elettronica e di tecnologie informatiche (tablet, smartphone, PC, laptop).

Le Norme

Art. 18 legge 22 maggio 2017 n. 81,
DPCM 8 marzo 2020 e successivi,
art. 4 Statuto Lavoratori,
Jobs Act 2015.

Questione

La normativa n. 81 del 2017 ha disciplinato i diritti e gli obblighi di ciascuna parte, datore e prestatore:

  • per il primo è fatto obbligo di garantire ai lavoratori la fornitura degli adeguati supporti informatici al fine del corretto e regolare adempimento delle mansioni ad essi assegnate;
  • ai lavoratori, invece, è richiesta una diligente conservazione del buono stato delle apparecchiature elettroniche aziendali ricevute e un dovere di “reperibilità” ogni qual volta sia richiesta dal datore di lavoro (limitatamente alle esigenze aziendali), oltre ad un obbligo di riservatezza e non divulgazione dei dati aziendali di cui siano in possesso.

Inoltre, è stato fatto categorico divieto a parte datoriale circa l’installazione di sistemi di videosorveglianza con il fine di verificare il regolare svolgimento della prestazione del lavoratore, salvo che il medesimo prestatore non dia un consenso esplicito ad essere video-registrato e controllato per via telematica.

Per ulteriore dovere di chiarezza, è necessario sottolineare come l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori faccia divieto di utilizzo di tale pratica di video controllo; tuttavia, il Jobs Act del 2015 ha radicalmente riformato tale principio rendendo, al contrario, legale l’esercizio di tale pratica. L’art. 4 dello Statuto, a sua volta però, ha mantenuto una “limitata autonomia” garantendo che, al fine di procedere all’installazione di videocamere o strumenti idonei al sorveglianza, il datore di lavoro debba sempre rispettare l’obbligo di far firmare una liberatoria alla rappresentanza sindacale dei lavoratori ed, inoltre, debba far firmare dei moduli per la concessione dell’autorizzazione al trattamento dei dati sulla privacy, così come stabilito dal GDPR 679/2016, a tutti i propri dipendenti.

In definitiva, si potrà parlare di un buon compromesso tra le parti, le quali vedranno garantito il normale svolgimento della prestazione lavorativa, senza veder lesi i principi di buona fede e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., fondanti ogni rapporto di lavoro subordinato.

In termini di diritti per il lavoratore, il lavoro “agile” prevede una forma di flessibilità per quanto concerne sia i luoghi che i gli orari di svolgimento del lavoro. Infatti, al prestatore è lasciata piena autonomia di scelta in merito a dove svolgere il proprio lavoro (non essendo vincolato al proprio domicilio) ed in particolare in quali fasce orarie della giornata, purché si rispetti il numero di ore minime prevista da contratto.

Sulla retribuzione del prestatore, inoltre, la principale novità introdotta dallo “Smart working” è quella del pagamento delle prestazioni straordinarie, del dipendente anche mediante il riconoscimento di bonus per la produttività e per gli obiettivi eventualmente raggiunti dal lavoratore.

Tra gli svantaggi che il lavoro “agile” ha invece portato vi è quella della cessazione del diritto del lavoratore alle c.d. “indennità di mensa”, ovvero alla percezione dei “buoni pasto”, in quanto viene meno la necessità di remunerare la partecipazione fisica del lavoratore all’interno dei locali aziendali, non rivestendo la predetta indennità carattere retributivo.

Altro aspetto fondamentale su cui porre l’attenzione è rappresentato dalle enormi opportunità che tale modalità di lavoro offre alle parti in gioco: attraverso tale normativa, infatti, si è consentito di aumentare la produttività delle imprese, abbattendo i costi di produzione legati alla partecipazione fisica dei dipendenti in azienda, con evidente miglioramento del benessere psico-fisico dei lavoratori, mentre, dall’altro lato, si è implementato l’utilizzo e lo sviluppo di tecnologie avanzate e di strumenti informatici di ultimissima generazione.

Ritornando al discorso principale sullo Smart Working, è d’uopo concludere aggiungendo che sarà sempre necessaria, ai fini della corretta prosecuzione del rapporto di lavoro, che le parti mirino sempre più verso l’utilizzo del “lavoro agile”, in sostituzione del rapporto di lavoro subordinato, in modo tale da stabilire tutte le regole etico-deontologiche nonché le direttive sugli orari e sui luoghi di esecuzione della prestazione del lavoratore.
Inoltre, la retribuzione del prestatore non verrà più commisurata in virtù delle ore di lavoro svolte, ma in base al raggiungimento di determinati obiettivi aziendali, con la possibilità di accedere ad incentivi e premi di produttività.
In caso contrario, infatti, troveranno sempre applicazione le disposizioni definite dal contratto sinallagmatico, già in precedenza stipulato tra lavoratore e azienda, che fornisce una precisa statuizione circa luoghi e orari di svolgimento dell’attività lavorativa, oltre che sulla retribuzione spettante al prestatore.


LICENZIAMENTO- RITO FORNERO SECONDA FASE – Notifica dell’opposizione all’ordinanza alla parte personalmente– nulllità della notifica – rinnovazione della notifica o rimessione in termini?

In Commissione lavoro,Diritto del lavoro e della previdenza sociale il

Commento a sentenza n. 2695/2014 Corte D’Appello Bari

Nel rito Fornero la notifica del ricorso in opposizione ex art.  1 comma 51 L. 92/2012 deve essere effettuata nei confronti del procuratore costituitosi nella fase sommaria, trattandosi di un unico procedimento ancorché suddiviso in due fasi distinte affinché sia possibile assicurare al lavoratore una tutela immediata.

NOTA

1.- Premessa. 2.- Svolgimento processuale. 3.- Disamina della motivazione. 4.- Conclusioni.

  1. Premessa

La sentenza in esame si inserisce in quel filone giurisprudenziale che, prendendo le mosse dalla ratio del rito Fornero, fornisce chiarimenti in ordine ai precipitati pratici che discendono dalla natura della sua fase oppositiva.

Occorre, dunque, fare un passo indietro e premettere brevi cenni sulla L. 92/2012.

Com’è noto la legge suddetta ha introdotto nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico italiano uno schema processuale che assicura al lavoratore una tutela rapida ed immediata.

Tale obiettivo viene perseguito attraverso la scissione del giudizio di primo grado in due fasi distinte: la prima – necessaria – tesa ad accertare la sussistenza dei presupposti della tutela invocata mediante un’istruttoria ridotta agli “atti di istruzione indispensabili”; la seconda – solo eventuale – di opposizione al provvedimento emesso al termine della precedente a cognizione piena ed ordinaria istruita tramite tutti gli atti ritenuti “ammissibili e rilevanti”.

In altri termini trattasi di un unico procedimento,ancorché bifasico, in cui l’opposizione non ha natura impugnatoria ma costituisce, di contro, quel momento – eventuale e non obbligatorio – volto confermare e/o modificare un precedente provvedimento giudiziario emesso all’esito di una fase a cognizione semplificata, suscettibile di divenire definitivo nel caso di mancata opposizione, in ossequio ai principi di immediatezza della tutela ed economia processuale propri del rito in esame (ex aliisCass. Civ., sez. Lav., n. 25086/2018).

Ciò posto numerosi sono stati i dubbi interpretativi e di applicazione pratica in ordine al soggetto cui notificare il ricorso che dà avvio alla fase di opposizione.

2.- Svolgimento processuale

Procedendo con ordine, risulta preliminarmente opportuno descrivere gli aspetti salienti della vicenda processuale in considerazione.

A seguito di licenziamento per motivi disciplinari la lavoratrice adiva il Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro per ivi sentire pronunciare la sua reintegra in servizio e la contestuale condanna della società datrice di lavoro al pagamento delle retribuzioni dovute dal giorno del recesso a quello dell’effettiva reintegrazione.

Instaurato il contraddittorio si costituiva in giudizio la convenuta la quale contestava l’avversa prospettazione dei fatti chiedendo il rigetto della domanda.

Con ordinanza del 2/10/2013 il Giudice di prime cure rigettava la domanda e condannava la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio.

La ricorrente in seguito dava inizio alla fase di opposizione avverso il predetto provvedimento chiedendo l’accoglimento della richiesta iniziale.

Alla prima udienza di comparizione il procuratore dell’opponente dava atto di aver erroneamente notificato alla parte direttamente e non già al procuratore costituito.

Il giudice assegnava, pertanto, termine per provvedere alla notifica nelle forme prescritte dalla legge.

All’udienza successiva il predetto procuratore, dopo aver mostrato la notifica regolarmente effettuata, rappresentava un ritardo dell’ufficio postale nella consegna del ricorso che aveva impedito alla società resistente di costituirsi nei termini chiedendo, pertanto, nuovo termine per procedere alla rinotifica.

In altri termini parte opponente, dopo aver dimostrato che la mancata notifica non era a lei imputabile ma dovuta a negligenza dell’ufficio postale, chiedeva di essere rimessa in termini per procedere alla tempestiva rinotifica.

Il giudice si riservava.

A scioglimento della predetta riserva il giudice di primo grado dichiarava il ricorso improcedibile in osservanza del divieto di assegnazione di un secondo termine per la rinnovazione della notifica già rinnovata in modo erroneo.

Il Tribunale, cioè, interpretava l’assegnazione del primo termine per la rinotifica quale implicito ordine di rinnovazione senza tuttavia rilevare la nullità della notifica stessa ai sensi dell’art. 160 c.p.c.

Ne derivava il divieto di assegnazione di un secondo termine ex art. 153 c.p.c, che fa divieto al giudice di abbreviare o prorogare i termini perentori.

Avverso il suddetto provvedimento l’opponente proponeva reclamo in Corte d’Appello affinché fosse accertata la validità della notifica eseguita e, per l’effetto, la causa fosse rimessa innanzi al giudice di prime cure per il prosieguo.

Con sentenza n. 2695/2014 del 3/11/2014 la Corte d’Appello di Bari accoglieva il reclamo, rimettendo le parti davanti al Tribunale, sulla scorta della seguente argomentazione.

3.- Motivi della decisione

3.1.- Il destinatario della notifica

Muovendo dalla riflessione sulla natura unitaria del giudizio di primo grado, la Corte d’Appello di Bari ha dichiarato nulla la notifica del ricorso in opposizione direttamente alla parte e non già al procuratore costituito.

Il dato letterale della previsione normativa impone – genericamente – la notifica all’opposto, senza null’altro precisare e senza d’altro canto legittimare una deroga alla rappresentanza del difensore costituitosi in occasione della fase sommaria.

Ed è a tal proposito che viene in rilievo l’unitarietà del procedimento.

Se trattasi di un unico procedimento – come effettivamente è – allora la rappresentanza processuale conferita dalle parti durante la prima fase vale anche per quella successiva con applicazione della disciplina prevista dall’art. 170 c.p.c. ai sensi del quale “dopo la costituzione in giudizio, tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito, salvo che la legge disponga altrimenti”.

Ne è conseguita la non condivisibilità della tesi prospettata dalla reclamante secondo cui l’art. 52 della L. 92/2012 contiene una deroga alla disciplina generale delle notificazioni ex art. 170 c.p.c. in favore di quella di cui all’art. 415 c.p.c. stante il suo rinvio ai requisiti del ricorso indicati nell’art. 414 c.p.c.

Tale richiamo, invero, è limitato agli elementi essenziali che il ricorso in opposizione deve contenere così da ricondurre la fase oppositiva al modello ordinario ed implicitamente affermarne la pienezza della cognizione, senza che ciò implichi l’applicazione della disciplina di cui alla successiva disposizione, che prevede la notifica al convenuto.

Peraltro, secondo la Corte, non offre alcun conforto probatorio l’analogia tra il procedimento ex art. 700 c.p.c. e la prima fase del rito Fornero nonché tra il primo grado del processo ordinario del lavoro e la seconda fase del rito Fornero prospettata dalla reclamante ma, al contrario, essa corrobora e rinforza la teoria della notifica al procuratore costituito.

Al riguardo i giudici hanno evidenziato come la giurisprudenza di legittimità sia granitica in tema di notifica nell’ambito del giudizio cautelare ante causam avendo a più riprese affermato che, se la procura rilasciata per la fase cautelare è riferibile altresì al giudizio di cognizione, allora la notifica deve considerarsi pienamente regolare se effettuata al procuratore costituito per il primo procedimento.

Seguendo il sillogismo logico suggerito dalla reclamante deve innanzitutto prendersi atto che la procura conferita nella prima fase del giudizio era stata rilasciata anche per “le fasi ed i gradi successivi d’impugnazione ed esecuzione” e, successivamente, riconoscersi che la notifica andava effettuata ai medesimi difensori.

3.2.- Rimessione in termini o rinnovazione?

La reclamante ha lamentato la mancata rilevazione d’ufficio della nullità della notifica nonché la sua mancata rinnovazione.

La Corte d’Appello ha ritenuto di dover accogliere la censura in questione ricorrendo innanzitutto alla distinzione tra notifica inesistente e notifica nulla.

La notifica è inesistente solo e soltanto in ipotesi eccezionali, tutte connesse alla insussistenza di un qualsivoglia nesso tra il luogo della notifica stessa e la persona presso cui effettuata ed il destinatario dell’atto (si pensi al caso in cui nessun atto venga consegnato all’ufficiale giudiziario).

In tutte le altre eventualità – in cui il requisito del collegamento è soddisfatto – si è in presenza di una notifica nulla, il cui vizio è sanabile mediante la costituzione ovvero l’opposizione del destinatario in ossequio al principio di conservazione degli atti processuali che comunque raggiungono lo scopo a cui sono destinati nonché tramite la sua rinnovazione.

Se questa è la premessa, allora la notifica eseguita alla parte personalmente è sicuramente erronea ma nulla, non inesistente, in quanto riconducibile al suo reale destinatario e, di tal ché, avrebbe potuto essere sanata se il giudice di prime cure ne avesse disposto la rinnovazione in osservanza del combinato disposto di cui agli artt. 160 e 162 c.p.c.

3.3.- Distinzione tra rimessione in termini e rinnovazione della notifica

Ciò posto i giudici di secondo grado hanno puntualizzato che in primo grado avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio la nullità della notifica e, conseguentemente, avrebbe dovuto essere disposta la sua rinnovazione.

Erroneamente, invero, il primo giudice aveva rigettato la richiesta di rimessione in termini per eseguire nuovamente la notifica in ossequio al divieto di assegnazione di un secondo termine ex art. 153 c.p.c. assumendo come punto di partenza del proprio ragionamento logico-giuridico la perentorietà di quello già concesso dopo aver preso atto della violazione del termine a difesa, senza nulla dire – e far presagire – circa la nullità della notifica stessa.

Ed è a questo punto che occorre approfondire la distinzione tra remissione in termini e rinnovazione della notifica.

La prima, infatti, viene disposta quando la parte incorsa in decadenze per il decorso dei termini dimostri che ciò sia accaduto per cause a lei non imputabili.

Evidentemente la ratio soggiace nel principio di conservazione degli atti giuridici e in ragioni di equità che impongono di mettere il resistente/convenuto contumace nella medesima condizione in cui si sarebbe trovato se il caso fortuito o la forza maggiore non avessero impedito la corretta notificazione dell’atto.

Di contro, la rinnovazione della notifica è disciplinata dall’art. 291 c.p.c. ai sensi del quale “se il convenuto non si costituisce e il giudice istruttore rileva un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovarla”.

Orbene nel caso di specie l’opponente era stata più propriamente rimessa in termini avendo dimostrato l’incolpevole ritardo nella notificazione del ricorso mentre il Tribunale non aveva rilevato d’ufficio la nullità della notifica per l’erronea individuazione del suo destinatario, sicché il termine perentorio disposto per la nuova notifica non poteva essere considerato inutilmente scaduto e, dunque, doveva esserne concesso altro per la rinnovazione.

4.- Conclusioni

Alla luce delle osservazioni finora esposte la Corte d’Appello ha ritenuto di dover considerare la sentenza conclusiva della fase di opposizione nulla e, pertanto, di rimettere la causa al giudice di primo grado innanzi al quale la causa doveva essere riassunta per la decisione sull’opposizione.

Conclusivamente si può affermare che la notifica del ricorso in opposizione nel rito Fornero deve essere eseguita nei confronti del procuratore già costituitosi durante la fase sommaria trattandosi di un unico giudizio quantunque distinto in due momenti processuali aventi natura e funzione differenti.

Tuttavia, quantunque la notifica del ricorso alla parte direttamente sia nulla, un granitico orientamento giurisprudenziale impone al giudice di concedere un nuovo termine per procedere alla rinnovazione della notifica stessa, non potendo sanzionare l’opposizione con la dichiarazione di improcedibilità solo constatando la mancata comparizione delle parti all’udienza prefissata.
In particolare la Suprema Corte ha escluso che possa procedersi a tale dichiarazione senza previamente accertarsi che il decreto di fissazione udienza sia stato portato a conoscenza dell’opponente, evidentemente in un’ottica di tutela del diritto di difesa.
A tal proposito in una nota sentenza ha precisato che è bisogna escludere che “le esigenze di celerità che ispirano il rito previsto dalla l. n. 92 del 2012 possano spingersi sino al punto di negare la possibilità di concedere ex art. 291 c.p.c. nuovo termine per la notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza, pur se la notifica stessa risulti omessa del tutto, atteso che il principio costituzionale di ragionevole durata di cui all’art. 111 Cost., comma 2, va esaminato nell’ottica non del singolo processo, ma dei tempi complessivi necessari affinchè su un dato diritto azionato si ottenga una pronuncia di merito, nel sostanziale rispetto dell’art. 24 Cost.” (Cass., Sez. Lav., sent. n. 1453/2015).
Nel caso di specie, trattandosi di un vizio sanabile, il giudice avrebbe dovuto innanzitutto porre la parte nella condizione di porvi rimedio e, solo dopo l’accertamento della sua inerzia, chiudere il processo con una mera pronuncia di rito.

Avv. Laura Lieggi (con la partecipazione della dottoressa Angelica Maiorano)


Il consolidamento dell’orario di lavoro da part time a full time è sempre possibile?

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La sentenza in commento involge l’importante, e quanto mai diffusa, tematica dell’imposizione del consolidamento dell’orario di lavoro part time con quello full time per frequente utilizzabilità. Di quest’ultimo.
Nel caso in esame, alla ricorrente, sottoscrittrice di un contratto di lavoro part-time, era stato, in maniera sistematica, ovvero non sporadica né occasionale, imposto lo svolgimento di un orario supplementare e pari a quello ordinario. L’utilizzabilità dell’orario straordinario diveniva via via l’effettivo orario di lavoro, ragion per cui, la lavoratrice chiedeva che il proprio orario di lavoro si trasformasse automaticamente da part time in full time pur non essendo mai avvenuta una novazione del rapporto di lavoro.
Parte convenuta sosteneva, invece, l’assunto della totale assenza, nella pretesa di parte ricorrente, di validi profili normativi e contrattuali che la sorreggessero, ovvero eccepiva l’assenza di alcuna fonte normativa o contrattuale, individuale o collettiva, che legittimasse la pretesa attorea, ritenendola pertanto contrastabile in quanto infondata in diritto.
Tuttavia, il Tribunale adito accoglieva il ricorso e riconosceva il diritto al consolidamento dell’orario full time. Il ragionamento logico giuridico del giudice di prime cure fondava la sua decisione su una chiara direttrice da tempo seguita dalla giurisprudenza di legittimità.
Granitica e ormai consolidata giurisprudenza stabilisce la non decisività delle clausole che regolano il negozio costitutivo del rapporto. Il rapporto nella sua concreta attuazione assume rilievo a fronte del diverso atteggiarsi dello stesso rispetto al suo contenuto effettivo. Di talchè, il Giudicante, che accerti la divergenza tra quanto concordato a quanto effettivamente realizzato può imporre la conversione (i consolidamento) pur in assenza di alcun requisito formale volto alla trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno” (cfr. Cass. n. 5520/2004, Cass. n. 3228/2008, Cass. n. 6226/2009).
Orbene, gli Ermellini ritengono, del tutto inconferente l’assenza di fonti normative o pattizie, anche collettive (quest’ultime norme di carattere prettamente programmatico e non cogente), perché nel rapporto di lavoro quello che conta non è tanto l’aspetto formale ma il dato di fatto, dunque nel concreto è l’esecuzione della prestazione lavorativa a sancire il diritto.
Di talchè, nel caso in esame, poichè la prestazione supplementare della ricorrente era pacifica e non contestata, il Tribunale ha accolto il ricorso e condannando la società convenuta a trasformare, formalmente, il contratto di lavoro da part time a full time.
La sentenza offre spunto alla disamina dell’annosa questio sull’esame dei principi giuridici che pongono alla modificabilità dell’originaria volontà contrattuale pur non voluta da una parte del sinalagma.
Infatti, sebbene la volontà negoziale sia stata formalmente espressa e, come tale, ha reso giuridicamente rilevante e vincolante un determinato rapporto giuridico, è pur sempre vero, secondo la Suprema Corte, che la stessa non deve nascondere un ulteriore e diverso rapporto giuridico ad esso sotteso, approfittando peraltro della forza contrattuale inferiore della parte debole del rapporto (il lavoratore). Nel rapporto di lavoro sono i comportamenti concludenti, i fatti dimostrativi a quantificare la prestazione, a chiarire più di ogni altro modo la volontà negoziale differente da quella iniziale, che non può restare relegata nel perimetro formalistico stabilito inizialmente dai paciscenti. D’altronde, l ’art. 1362 c.c., rubricato “intenzione dei contraenti”, stabilisce al 2° comma che il comportamento dei contraenti non è solo quello giuridico, cioè relativo al profilo tecnico del contratto, ma anche quello non giuridico, se collegato al contratto stesso. Inoltre, non si deve considerare solo la condotta alla stipula del contratto ma anche quella successiva, quindi quella adottata nel dare esecuzione all’accordo. Ininfluente, inoltre appare la circostanza che il lavoratore può rifiutare la prestazione
oltre l’orario part-time, posto che, come rilevato dalla Corte di merito (Cassazione nr. 31342/2018), l’effettuazione, in concreto, delle prestazioni richieste, con la continuità risultante dalle buste paga, evidenzia l’accettazione della nuova regolamentazione, con ogni conseguente effetto obbligatorio, im quanto variazione non accessoria dei contenuti del sinallagma negoziale
Appare dunque, dirimente, il principio, d’altronde applicabile a moltissime problematiche afferenti il contratto di lavoro, secondo il quale, il nudo formalismo lascia il passo all’effettivo atteggiarsi della realtà fattuale, e solo questa complessivamente considerata consente la tutela di quel caratteristico diritto soggettivo che non è solo il riflesso di un interesse economico ma una manifestazione della personalità e dignità dell’uomo.


Accudimento di animali situati nel sedime aziendale? Lavoro straordinario se disposto dall’azienda. L’inesattezza dell’adempimento datoriale. E la mancata contestazione specifica dell’esattezza della pretese economiche.

In Commissione lavoro,Diritto del lavoro e della previdenza sociale il

Il caso riguarda un lavoratore di un’azienda del settore del Terziario e della Distribuzione, elettricista, con orario di lavoro pari a 40 per settimana, distribuite in cinque giorni, che con ricorso ritualmente depositato, incardinava il processo in questione per veder riconosciuto il proprio diritto alla retribuzione di un monte ore di straordinario eseguito per conto dell’impresa resistente, pur afferente a compiti diversi dalle proprie mansioni.

Difatti, l’esponente deduceva di aver svolto le predette ore per accudire, nutrire, fare passeggiare e pulire le gabbie dei 4 cani di proprietà dell’azienda, la quale convenuta in giudizio non contestava la sussistenza del lavoro affidato, ma sosteneva che il ricorrente, mosso prevalentemente dall’amore verso gli animali, si fosse reso disponibile solo durante le ore di lavoro, dunque nulla era dovuto a titolo di straordinario.

Il lavoratore, sui cui gravava la piena e rigorosa prova dello svolgimento del lavoro in eccedenza rispetto all’orario normale, forniva in giudizio l’esatta collocazione cronologica delle ridette prestazioni e l’istruttoria svolta consentiva di avvalorare la tesi attorea.

Inoltre, più in radice, l’escussione dei testi, colleghi del ricorrente, nel confermare le mansioni di accudienza espletate da quest’ultimo, sconfessavano il punto di forza della tesi datoriale, confermando a pieno titolo l’avvenuta assegnazione al lavoratore, rilevabile d’altronde anche da una nota aziendale che formalizzava tale incarico, sia pure limitato a soli 15 minuti giornalieri.

Il Giudicante riteneva raggiunta la prova dei fatti costitutivi del diritto vantato, con la conseguenza di accreditare al lavoratore le differenze retributive conseguenti allo svolgimento di lavoro straordinario per 260 ore di straordinario feriale e 156 ore di straordinario festivo all’anno, da computarsi per gli ultimi 5 anni antecedenti la proposizione della domanda giudiziaria, in osservanza del termine di prescrizione previsto dalla legge per i crediti di lavoro (prescrizione breve prevista a seguito della sentenza della Suprema Corte n. 947/2010 anche per le ore di straordinario, rientranti nei crediti periodici dell’art. 2984 c.c.).

Le appurate spettanze richieste hanno consentito al lavoratore-creditore, conformemente ai principi civilistici generali in tema di adempimento del contratto, di allegare a fondamento della propria pretesa la mera inesattezza dell’adempimento da parte del debitore-datore, il quale nel caso di specie, benché gravato dall’onere di dimostrare esattamente l’avvenuto adempimento dell’obbligazione avente ad oggetto la corresponsione del lavoro straordinario, decideva di non fornire alcuna prova a riguardo, ritenendo, come già anticipato, di non dover riconoscere alcunché perché nulla era stato dallo stesso autorizzato.

In altri termini, l’impresa resistente poneva a base del proprio inesatto ragionamento logico giuridico la negazione della sussistenza dell’an della domanda, fondandolo sulla mancata autorizzazione allo svolgimento delle mansioni, di fatto concessa, e ometteva di provare fatti estintivi della pretesa.

La questione decisiva involge i carichi istruttori tra i due soggetti del sinallagma contrattuale, ossia nelle fattispecie di adempimento mancato e in quella di adempimento inesatto: il creditore, dopo aver dato prova del titolo dell’obbligazione, può limitarsi ad allegare l’inesattezza dell’adempimento e a tale allegazione il debitore deve contrapporre la dimostrazione del fatto estintivo consistente nell’esatto adempimento.

L’altra questione di rilievo riguarda il quantum della domanda, dove l’opponente nel non contestare specificatamente i conteggi formulati, in spregio del principio generale sancito dell’art. 115 c.p.c. e di quello correlato, di cui ne costituisce un presupposto, dell’onere probatorio, ex art 2697 c.c., forniva al Giudicante un ulteriore elemento non discrezionalmente valutabile.

Si tratta di un principio il cui definitivo recepimento giurisprudenziale si è avuto con la nota sentenza n. 761/ 2002, resa dalla Cassazione a Sezioni Unite, che considera non contestati fatti esplicitamente o implicitamente ammessi ma soprattutto, e in questo consiste la grande novità riconducibile alla sentenza, i fatti sui quali il convenuto è rimasto silente.

Va detto, inoltre, che la contestazione specifica dell’esattezza delle pretese economiche ha una funzione autonoma, sebbene subordinata alla domanda di contestazione dell’an, in ragione delle peculiarità proprie del rito del lavoro, connotato da un sistema di preclusioni che consentono all’attore di conseguire, in maniera più semplice e celere, la pronuncia riguardo al bene della vita reclamato (rientra nella c.d. “concentrazione degli atti processuali”).

Ne deriva la necessarietà di una difesa seria per la puntualità dei riferimenti richiamati anche con riguardo sull’aspetto dei calcoli delle differenze retributive, ritenuto nel caso di specie erroneamente secondario e assorbito nella contestazione della domanda principale.

Rappresenta una chiave di volta giuridicamente interessante, in quanto la presenza di questo onere legale, rende pacifici e corretti i conteggi sul credito preteso e, quindi, inutile da provare, poiché non controversi, vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della loro esattezza.

La mancata contestazione specifica rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione della loro correttezza.


Ammortizzatori sociali covid-19, la circolare INPS n.47 del 28 marzo 2020

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La circolare INPS n.47 del 28 Marzo 2020 è stata emessa dall’istituto al fine di meglio chiarire gli interventi del Governo a sostegno del reddito di cui al Decreto “Cura Italia” n.18/2020 previsto per disciplinare i casi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da covid-19.

La Circolare in questione indica gli ammortizzatori sociali previsti (Cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario Fis, Assegno ordinario dei Fondi bilaterali di cui all’art.26 del Dlgs n.148/2015 e Fondi Trentino e Bolzano-Alto Adige, Assegno ordinario dei Fondi di solidarietà bilaterali alternativi, Cassa integrazione speciale per gli operai e impiegati a tempo indeterminato dipendenti da imprese agricole, Cassa integrazione in deroga) e chiarisce in cosa consistono le novità dovute all’emergenza.

Difatti il Decreto “Cura Italia” apporta norme che derogano completamente la precedente disciplina (l’abolizione dell’obbligo dello smaltimento delle ferie pregresse, assenza del contributo addizionale, assenza dell’accordo sindacale e della relazione tecnica, mancato requisito dell’anzianità, sostituzione del nuovo ammortizzatore rispetto ad altri già richiesti) e norme dai contenuti assolutamente nuovi (inserimento causale covid-19 nazionale, possibilità di erogazione della retribuzione direttamente dall’INPS).

Le vere novità del decreto “Cura Italia” sono rappresentate, senza dubbio, dallo snellimento della procedura per ottenere l’ammortizzatore sociale consono alla tipologia di impresa.
Sembra che l’accordo sindacale, così come richiesto dall’art.14 del Dlgs n.148/2015 non sia necessario, ma occorre una semplice attività di informazione, consultazione e di studio congiunto da svolgere con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative anche in via telematica.
Anche l’obbligatoria attività istruttoria prevista dall’art.11 del Dlgs n.148/2015 cede il passo ad un veloce riscontro dell’Istituto o della Regione, se si parla di Cassa integrazione in deroga, ed infine viene soppressa anche la Relazione tecnica prevista dall’art.2 del D.M. 95442/2016.

La bona voluntas di un decreto nato tanto velocemente ma con effetto dirompente, la si evince anche dalla volontà di prevedere un soccorso alle imprese che hanno già richiesto l’intervento di un ammortizzatore sociale.
Per esempio le aziende che hanno in corso un trattamento di integrazione salariale straordinario (CIGS) alla data del 23 febbraio 2020 possono presentare domanda di CIGO (Cassa integrazione ordinaria) nelle modalità semplificate e con le deroghe sopra illustrate, per un periodo non superiore a 9 settimane. Qualora dette aziende non rientrino nel campo di applicazione della CIGO -come specifica il decreto- possono presentare domanda di cassa integrazione in deroga.

Molti sono gli interventi in soccorso alle imprese, che hanno dovuto subire sospensioni o riduzione dell’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da covid-19.
Le tabelle, di seguito riportate, individuano i diversi ammortizzatori sociali previsti, i requisiti necessari per la loro applicabilità e le differenze sostanziali nell’iter procedurale.

tabella CIGO (Cassa Integrazione Ordinaria)
tabella Assegno ordinario del FIS (Fondo Integrazione Salariale)
tabella Assegno ordinario dei Fondi di solidarietà bilaterali alternativi
Cassa Integrazione Speciale Imprese agricole
CIGD (Cassa Integrazione in Deroga)

Gli schemi precedenti riportano quanto chiarito nella circolare INPS n.47 del 28/03/2020 che attua il contenuto del Decreto legge 17 marzo 2020, n.18 nella parte in cui indica le norme speciali in materia di trattamento ordinario di integrazione salariale, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga.
Tale circolare, infatti illustra le misure a sostegno del reddito previsto dal Decreto legge n.18/2020 relativamente alle ipotesi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da covid-19 nonché sulla gestione dell’iter concessorio relativo alle medesime misure previste negli articoli 19, 20, 21, 22 del citato decreto.


Legge 104/1992 e ordinamento militare

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Preambolo

Avendo necessità di assistere un familiare disabile, un militare presentava domanda di trasferimento dalla sede di servizio.

Le norme

Legge quadro n. 104 del 1992 sull’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità
D.lgs. n. 66 del 2010 Codice dell’ordinamento militare.

La questione

Un graduato dell’esercito aveva prestato per molti anni servizio presso una caserma distante dalla città dove egli domiciliava e risiedeva l’anziana madre. Questa, ammalatosi di un’insufficienza mentale grave, necessitava di una maggiore presenza ed assistenza dell’unico figlio. Il genitore aveva una invalidità riconosciuta grave, come richiesto dall’art. 3 della legge 104 del 1992 per poter usufruire dei benefici e delle agevolazioni stesse.
Così, il militare aveva chiesto al proprio comando regionale di usufruire dell’agevolazione lavorativa prevista dalla legge e, dunque, di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, dove tra l’altro vi era una carenza di personale di n. 1 unità per quanto riguarda il suo grado.
L’amministrazione, tuttavia, opponeva il proprio diniego indicando in maniera generica che vi fossero necessità di servizio e organizzative preminenti.

Procedimento

Avverso a detto provvedimento, si procedeva al deposito di ricorso presso il T.A.R., richiedendo sia l’annullamento del provvedimento che il trasferimento del militare, adducendo il rispetto dei requisiti di legge richiesti, la mancanza di motivazione chiara delle ragioni ostative al trasferimento connesse alle esigenze di servizio, l’assenza di un’attenta comparazione tra il disservizio potenzialmente procurato alla sede di appartenenza dal trasferimento del ricorrente (la rilevanza delle esigenze di servizio) e la disponibilità di destinare alla nuova sede una risorsa nuova, determinando di conseguenza lo svilimento delle finalità delle agevolazioni previste dalla legge in favore dei familiari del parente disabile.
Il Tribunale adito, contemperando gli interessi coinvolti, riconosceva l’illegittimità del provvedimento.


Danno biologico per infortunio sul lavoro nell’appalto

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Preambolo

Esiste una forma di responsabilità solidale in capo al committente di un’opera o di un servizio, il quale è responsabile in solido con l’appaltatore e con il subappaltatore per il risarcimento dei danni subiti dai dipendenti di questi ultimi in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, per la parte non oggetto di indennizzo ad opera degli enti assicuratori obbligatori. Si tratta del danno biologico c.d. differenziale, ossia il danno risarcibile al lavoratore, quantificato nella differenza tra quanto ottenuto dall’Inail a titolo di indennizzo e la maggior somma liquidabile in sede civile e ricomprendente varie voci di danno non sovrapponibili per contenuti e criteri risarcitori. In altri termini, l’Inail indennizza il danno biologico subito da un lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale, non lo risarcisce né tantomeno eroga un risarcimento per la sofferenza morale o il pregiudizio reddituale o altri interessi costituzionali della persona.

Le norme

Art. 2087 c.c.; art. 26, comma 4, D.lgs. 81/2008; comma 1, dell’art. 1298 c.c;

Questione

E’ la configurabilità dell’evento dannoso, quale illecito verificatosi a causa della condotta colposa del datore di lavoro o di un terzo, a legittimare un risarcimento a titolo di danno differenziale spettante anche a chi ha già percepito un indennizzo Inail, ma dimostri di aver subito un danno ulteriore rispetto a quello indennizzato. La pretesa risarcitoria, dunque, può essere avanzata anche nei confronti del committente, che, secondo una consolidata giurisprudenza, è e rimane responsabile dell’adozione di “tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori”. Dunque l’omissione di cautele da parte del lavoratore non è condizione sufficiente per escludere il nesso causale tra condotta colposa del committente ed evento dannoso, così suggellando il principio secondo cui la responsabilità sussiste ogniqualvolta le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno. Evidentemente, è, questa, una disciplina che presenta profili di indiscussa delicatezza, stante la potenziale elevatissima entità del danno da risarcire, con cui il legislatore ha voluto estendere anche al committente la responsabilità derivante dagli infortuni sul lavoro, così rafforzando la tutela del lavoratore, in ossequio a principi generali dell’ordinamento, primi fra tutti la tutela della salute e la sicurezza, la libertà e la dignità del lavoro.

Indennizzo

Quale sia il criterio da seguire per la quantificazione del danno differenziale è stata questione ampiamente dibattuta in passato, avendo le Sezioni Unite affermato, con le c.d sentenze gemelle, l’unitarietà della categoria, non suddivisibile in sottocategorie variamente denominate; orientamento subito sconfessato dalle successive pronunce della Suprema Corte, che hanno restituito al danno morale, al danno biologico e al danno esistenziale un’autonoma valenza. Tuttavia, di recente, la Cassazione ha stabilito che la liquidazione deve avvenire secondo equità, onde evitare disparità di trattamento a seconda del tribunale adito.
Ipotesi di esclusione o riduzione di responsabilità

L’unica ipotesi in cui è possibile escludere la responsabilità del committente è quella del comportamento c.d. abnorme, inopinabile ed esorbitante del lavoratore; così come la si può ridurre in caso di concorso di colpa del lavoratore. Nessuna menzione al diritto di regresso dell’appaltante nei confronti dell’appaltatore e/o del subappaltatore.
Sentenze

Cass. sent. n.21694/2011; Cass. sent. 12408/2011; Cass. sent. 19280/2010; Cass. 8386/2008


Crediti di lavoro nell’appalto e nel subappalto

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Preambolo

Il contratto di appalto nasce ed è regolato tra committente e appaltatore. Tuttavia, l’ordinamento ammette il c.d. subappalto, ossia la sublocazione della totalità o di una parte dell’opera ovvero del servizio, per cui l’appaltatore diviene a sua volta committente. Evidentemente, si tratta di un contratto derivato, che, però, conserva la sua autonomia e indipendenza rispetto a quello da cui deriva. Nell’ambito dei rapporti lavorativi sorti tra l’appaltatore e i suoi dipendenti, la disciplina è del tutto peculiare, in quanto l’apparato normativo estende le obbligazioni derivanti da crediti di lavoro anche al committente beneficiario della prestazione lavorativa, benché sia parte estranea al contratto di lavoro stesso, prevedendo la possibilità di esperire un’azione diretta nei suoi confronti nell’ipotesi di inadempienza dell’appaltatore, così realizzando una maggiore tutela dei lavoratori.

Le norme

Artt. 1665 c.c.; art. 1676 c.c.; art. 29 del d. lgs. 276/2003

La questione

Nell’ipotesi in cui inadempiente sia il subappaltatore, l’azione sarà esperibile anche nei confronti del solo subcommittente e tanto al fine di tutelare gli ausiliari che prestano la propria attività lavorativa, onde evitare che i meccanismi di decentramento e di contrattazione a catena ledano i diritti dei materiali esecutori dell’opera. Quindi, vi è una responsabilità solidale dell’appaltatore e del committente, nei confronti del quale i lavoratori possono agire in giudizio per ottenere i trattamenti retributivi, ivi compresi quelli di fine rapporto, vantati per il periodo di esecuzione del contratto di appalto. Infatti si sono ormai consolidate le prassi di conciliazioni intervenute tra dipendenti della ditta appaltatrice e committente dell’opera; prassi che dimostra l’esistenza di un vincolo di solidarietà passiva tra committente e appaltatore, fermi restando le azioni o i diritti di compensazione del primo verso il secondo per ottenere la restituzione di quanto pagato.Dunque, insiste in capo al committente una responsabilità solidale per i crediti retributivi e contributivi vantati dal dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro/appaltatore, prevedendo al contempo il limite temporale di un anno, decorrente dalla cessazione del contratto di appalto, entro il quale è possibile far valere tale responsabilità.

Si precisa, tuttavia, che detta disciplina non può essere applicata agli appalti pubblici, che sono, invece, regolati da norme speciali, le quali tengono conto della particolare natura giuridica dell’appaltatore e della necessità di assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione.

Sentenze

Cass. Civ., sez. Lav. n. 12048/03; Cass., sez. Lav. 15432/14.


Discriminazione delle donne medico

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Preambolo

Molto frequenti sono i casi di discriminazione di genere comportanti la violazione dei principi di uguaglianza e di pari opportunità che riguardano le donne medico, per le quali è più difficile diventare ed essere madri ed è più complicato conciliare lavoro e famiglia, raggiungere posizioni apicali e frequentare un corso di aggiornamento professionale.

Le norme

Le norme di riferimento sono l’art. 28 del T.U., l’art.2087 c.c. e la L. 10 aprile 1991, n. 125, art. 4, commi 1 e 2.

La questione

Nella fattispecie una donna medico che prestava servizio presso una ASL rientrava sul posto di lavoro a seguito del periodo di congedo per maternità e si vedeva assegnate la metà delle reperibilità previste nei giorni festivi presenti in un mese e anche i turni di lavoro ordinari le venivano assegnati con criteri diversi rispetto agli altri medici (uomini) della struttura, i quali sceglievano gli orari a loro più confacenti, senza effettuare una reale turnazione. La dottoressa veniva sistematicamente destinata ai turni di prima reperibilità, nonostante avesse maturato l’anzianità necessaria per poter accedere ai turni di seconda reperibilità, o a quelli nei giorni festivi, trascurando le rilevanti difficoltà di una lavoratrice madre di un bimbo piccolissimo nel gestire turni in giornate festive.

L’emarginazione e l’isolamento si manifestavano anche con la sottrazione dei mezzi utili per l’espletamento dell’attività lavorativa, come l’utilizzo del computer e della connessione internet, ed inoltre, nonostante i dieci anni di servizio, la dottoressa veniva costantemente relegata in una stanza sempre più piccola di altre, con la privazione di spazi per il ristoro, lo spogliatoio e il bagno riservato.

La lavoratrice quindi veniva sottoposta a continui atti discriminatori con ingiustificate assegnazioni ai turni peggiori, ai lavori maggiormente gravosi, da espletare in assenza della strumentazione o della predisposizione del minimo indispensabile, nonché alla suddivisione dell’orario di lavoro su due strutture ospedaliere.

In merito al caso esaminato la L. 10 aprile 1991, n. 125, art. 4, commi 1 e 2 stabilisce che: “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”. Inoltre la L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 3 stabilisce che: “È vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera”.

Inoltre la stesura dell’art. 28 T.U. amplifica i profili di responsabilità (penale) a carico del datore di lavoro in ordine alla valutazione e prevenzione dello stress lavoro-correlato. Il datore di lavoro, pertanto, deve sempre attivarsi positivamente non solo per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, ma prevenire possibili eventi lesivi conseguenti il malessere e le disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali, che conseguono le persone, quando non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti, cogliendo quei potenziali indicatori di stress, di cui all’art.4 dell’Accordo europeo.

Avverso tale situazione la lavoratrice si rivolgeva alla scrivente studio legale che con il supporto della Consigliera di Parità territorialmente competente inviava una lettera ai direttori generali della ASL per intimare l’immediata cessazione del comportamento discriminatorio subito sul posto di lavoro.